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Lucky (Due di Picche)
view post Posted on 6/8/2009, 10:43 by: Lucky (Due di Picche)




Nulla di fatto nell'incontro di ieri.
Errani sconfortato: "Non ci sono risposte"
Fitto difende l'esecutivo: "C'è piena disponibilità, ci rivediamo ai primi di settembre"
Pochi soldi per Fas e sanità
E' rottura tra regioni e governo
Nessuna chiarezza sui Fondi per le aree sottoutilizzate e il Piano salute


Fitto e Berlusconi all'incontro con le Regioni
ROMA - Fumata nera ieri a tarda sera a Palazzo Chigi tra governo e Regioni su un numero cospicuo di temi, su cui spiccano i fondi Fas, il nuovo Patto per la salute, il Ministero del Turismo e i fondi per il welfare. "La rottura con il governo resta", ha detto al termine della riunione uno sconfortato Vasco Errani. Il presidente della Conferenza delle Regioni ha spiegato che le prime risposte l'esecutivo le fornirà il 3 o 4 settembre, ma che in ogni caso "l'incontro ha avuto un esito negativo". Il premier Silvio Berlusconi ha assicurato che la disponibilità del governo c'è: "Vogliamo tornare alla collaborazione". Ma le parole non bastano e la distanza resta, ha ribattuto Errani.

"Per quanto ci riguarda - ha ammonito - siamo pronti a dare una piena collaborazione al Governo per risolvere le questioni rimaste ancora senza risposta. Per fare questo però serve reciprocità: l'esecutivo la deve smettere di procedere in maniera unilaterale come ha fatto spesso in questi ultimi mesi". Altrimenti "la situazione rischia di diventare drammatica".

In tema di Fondi per le aree sottoutilizzate, "riteniamo che le risorse non ci siano - ha precisato Errani -. Un dubbio che deve essere chiarito con un'operazione verità, smettendola una volta per tutte con l'uso dei Fas come Bancomat". Pollice verso anche per il Piano Salute 2010-2011: le risorse ad esso destinate, ha spiegato Errani, "sono sottostimate; e mi piace sottolineare che per parte nostra abbiamo offerto al Governo la nostra disponibilità a rivedere il Piano anche per il periodo 2010-2013". Stesso tono sulle regioni commissariate per i deficit accumulati sul fronte della sanitario, ambito sul quale il leader delle Regioni ha esortato il premier ad avere "un atteggiamento più coerente".

Da parte sua il presidente del Consiglio ha rilanciato facendo leva sugli accordi "raggiunti nei mesi scorsi su questioni come il Piano Casa e gli ammortizzatori sociali. Vogliamo tornare a quel periodo di collaborazione, da parte nostra c'è tutta la disponibilità a riprendere il dialogo".

Gli ha fatto eco il ministro per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto: "Sui temi sollevati dalle Regioni il governo ha preso un impegno preciso. Il 3 o il 4 settembre ci rivedremo. Ora non poteva che essere un appuntamento interlocutorio".

Quanto ai Fas ha assicurato che la possibilità di fare una verifica sull'entità e sulla destinazione dei soldi, c'è, ma "essendo fondi destinati a investimenti non c'è una problema immediato di cassa, ma c'è la necessità di un percorso condiviso. Le Regioni chiedono un gruppo di lavoro e hanno già individuato tre persone".

Ma dove il governo parla di collaborazione, i governatori rispondono manifestando insoddisfazione per l'esito della riunione. "Di positivo c'è solo che il filo del dialogo viene tenuto in vita fino al 4 settembre", afferma il presidente del Lazio Piero Marrazzo. "Noi siamo stati rinviati a settembre, ma impreparati sono solo loro", sintetizza Maria Rita Lorenzetti, che guida la giunta umbra. E il pugliese Nichi Vendola parla di "grande confusione" da parte del governo. Non si sbilancia il governatore abruzzese Gianni Chiodi: "Ci vuole maggiore dialogo tra governo e Regioni".

(6 agosto 2009) Tutti gli articoli di politica


Proposta dei senatori del Carroccio per modificare l'articolo 12 della Costituzione
"Bandiere regionali accanto a quella italiana. Adesso c'è la riforma federale"
Lega, il tricolore non basta più
Monito di Schifani: "Simbolo di unità"
Monito del presidente del Senato: "E' un valore intangibile"
Franceschini: "Il governo la smetta di prendere in giro gli italiani"


ROMA - L'Italia cambia, cambino anche i simboli che la rappresentano. E se il tricolore e l'inno di Mameli sono i simboli identitari dell'unità nazionale, bisogna andare oltre. In nome della nuova identità federalista dell'Italia. Per questa ragione, il presidente dei senatori del Carroccio Federico Bricolo annuncia una proposta di legge costituzionale per inserire un comma nell'articolo 12 della Costituzione che riconosca i simboli identitari di ciascuna Regione: dunque, bandiere e inni regionali. Per Dario Franceschini, segretario del Pd, il governo, invece di fronteggiare la crisi, "si preoccupa delle bandiere regionali. La smettano di prendere in giro gli italiani". In serata arriva il monito del presidente del Senato, Renato Schifani: "Occorre senso di responsabilità da parte di tutti. Il tricolore è un valore intangibile, simbolo dell'unità del paese".

L'articolo 12 della Costituzione. L'articolo 12 recita testualmente: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".

La Lega e la bandiera. Il rapporto tra la Lega e la bandiera italiana, insomma, prosegue tra alti e bassi. E se prima i toni erano decisamente volgari ("Uso il tricolore soltanto per pulirmi il culo", disse Umberto Bossi durante un comizio nel 1997), oggi l'approccio è più soft e istituzionale. Quello che chiede la Lega, infatti, è un riconoscimento ufficiale dei simboli identitari che contraddistinguono le Regioni. Che, ad oggi, nella Costituzione non c'è.

"Una lacuna inammissibile". "Questa lacuna - spiegano i senatori del Carroccio - è inammissibile, alla luce della sostanziale valorizzazione del ruolo politico ed istituzionale delle Regioni realizzata dalle più recenti riforme costituzionali". I leghisti, infatti, ricordano come la Regione si sia trasformata "in un ente territoriale dotato di una piena autonomia politica". Un'evoluzione che il Carroccio vuole sia sancita in una norma: "La proposta di legge è un'evoluzione del ripensamento dell'assetto territoriale dello Stato in ambito interno ed a livello sovranazionale, per cui è più che mai necessario recuperare i simboli identitari che, contraddistinguendo ciascuna realtà regionale, contribuiscono ad alimentare quel legame dei cittadini con il territorio che è presupposto indispensabile di qualsiasi riforma federale dell'ordinamento".

La proposta di legge. Va in questa prospettiva la proposta di legge che si fa forte del riconoscimento istituzionale nelle riforme degli statuti regionali approvate dal 1999 ad oggi, "che nei primi articoli hanno ufficialmente riconosciuto quei simboli che, per tradizione, storia e cultura contribuiscono ad identificare la regione stessa".

Franceschini: "Prendono in giro gli italiani". "Di fronte a un Paese che aspetta scelte di fondo strutturali per affrontare e superare la crisi - ha sottolineato Dario Franceschini - e a milioni di italiani e decine di migliaia di imprese che aspettano risposte per affrontare l'emergenza perché non ce la fanno più a vivere, loro si occupano delle bandiere regionali da mettere di fianco a quella nazionale. La smettano di perdere tempo e di prendere in giro gli italiani".

Idv: "L'ennesima provocazione". Lapidario il commento di Massimo Donadi, presidente dei deputati dell'Italia dei Valori: "Archiviamo questa ennesima provocazione della Lega come un colpo di sole estivo. Non sprechiamo neanche tempo a discutere di una tale baggianata".

Pdci: "La Lega gioca allo sfascio". Assolutamente contrari i Comunisti Italiani che, per bocca di Pino Sgobio, attaccano il Carroccio: "Gioca allo sfascio. La proposta di legge è la ciliegina sulla torta del disegno politico per cui la Lega è nata e si è sviluppata: la divisione dell'Italia e la secessione".

(5 agosto 2009) Tutti gli articoli di politica


L'Italia frantumata
di MICHELE SERRA

Esiste una bandiera marchigiana? Qualcuno di voi conosce il vessillo della Calabria? E come sarà l'inno regionale del Lazio? E l'inno del Trentino? Avete mai sventolato il drappo della Liguria? Da qualche parte esisteranno già.

Magari a cura di qualche eccentrico di paese, o di qualche maestro di banda. Ma se anche non esistessero, la bandiera e l'inno di tutte e venti le Regioni italiane, non ha importanza. Li si inventa. La storia italiana recente lo ha dimostrato in modo lampante: la tradizione è una contraffazione di successo.

La Lega ha proposto, con tanto di riforma della Costituzione (articolo 12), di introdurre ufficialmente, accanto al Tricolore e all'inno di Mameli, la bandiera e l'inno di ciascuna regione. La mossa fa parte, insieme a infinite altre, di quella laboriosa costruzione mitica, oramai ventennale, di un'Italia Federale destinata a fare le scarpe all'odiata Repubblica centralista, e a Roma ladrona e padrona. Trasformando confini puramente amministrativi in Patrie e in altrettante Identità Popolari, spremendo e centrifugando ben bene il vecchio localismo italiano, laddove ha ragioni storiche (Veneto, Sicilia) ma anche laddove non è mai esistito: proprio la Lombardia è un caso clamoroso di autonomismo artificiale, inventato di sana pianta, e nella costruzione nazionale fu la regione più vicina, non solo geograficamente, al disegno annessionista dei Savoia.

Di tutto questo, come già detto, alla Lega importa nulla. Per sperimentare quanto fragile sia l'identità nazionale, ha potuto saggiare il grado zero, o quasi, di reattività istituzionale e politica alle sue continue sortite anti-italiane. Dal Parlamento padano alle sparate sediziose di Bossi, dal tasso di xenofobia altamente anticostituzionale (e ciò che è anticostituzionale è anche anti-italiano) alla rimasticazione insieme ottusa e aggressiva dei dialetti come "lingue locali", il partito di Bossi ha messo l'Italia (compresa la maggioranza di italiani che non la sopportano) di fronte a un fatto compiuto. Vent'anni fa, la proposta di bandiere e inni regionali che "correggessero" la presenza dell'odiato Tricolore avrebbe fatto ridere, tal quale gli esami di "cultura locale" ai professori extra-regionali e dunque stranieri.

Oggi queste vere e proprie truffe identitarie sono nell'agenda politica, e come vedete siamo qui a parlarne tutti quanti insieme, gli umbri a domandarsi come diavolo sia l'inno umbro, i campani in cerca sul web dei loro colori regionali, i sardi (i soli ad avercela davvero, una bandiera nazionale, i Quattro mori) a meditare sulla fine ingloriosa del loro autonomismo, grazie alla furba Lega ormai confuso nel corteo posticcio degli autonomismi inventati. Già: perché il risultato di tutto questo agitare bandierine, canzoncine, dialetti, "tradizioni" sortite da bauli fortunatamente dimenticati oppure inventate ex novo, è alla fine la cancellazione delle differenze vere, delle radici autentiche. La minoranza tedesca di Alto Adige (vera) tal quale i finti celti di Calderoli, la complicata ricerca di un'identità sarda (vera) tal quale la fandonia del Dio Eridanio. Frantumi di Italia, briciole di identità, schegge di storia da spargere, come sale, sulle rovine di Roma. Balle locali, balle regionali, balle spaziali.

L'obiettivo (dichiarato) della Lega era puntare a un secessione impossibile, quella della piccola borghesia benestante e riottosa del Nord (ribattezzata da Bossi "popolo padano", non si sa a quale titolo,) per poi ripiegare su una separazione strisciante, senza professori terrori e senza immigrati tra le scatole, camuffata da "federalismo". Tirare in ballo un inno marchigiano o una bandiera molisana, dei quali nessun marchigiano o molisano ha mai avvertito l'esigenza, serve solo a creare quella confusione simbolica e quel caos identitario che stanno avvelenando la Repubblica e ingrassando la Lega e, attraverso di lei, il governo più anti-repubblicano della nostra storia. I professori e i sapienti che stanno lavorando al Centocinquantenario dell'Unità d'Italia sono avvertiti: la Lega è al governo di questo paese. Loro no.

(6 agosto 2009)

Prosegue la strategia della tensione in vista delle elezioni politiche
Tra le vittime donne e bambini. Stavano recandosi a una cerimonia nuziale
Afghanistan, massacro al matrimonio
Bomba sul ciglio della strada: 21 morti

KABUL - Ancora bombe e sangue in Afghanistan. La strategia della tensione accompagna il Paese tra paura e incertezze verso le elezioni. Questa mattina ventuno civili in viaggio per partecipare a un matrimonio sono stati uccisi nell'esplosione di un ordigno piazzato sul ciglio di una strada nel sud del Paese. Lo ha annunciato la polizia del paese.

L'attentato è avvenuto nel distretto di Garmser, nella provincia di Helmand, dove la tecnica di nascondere gli ordigni sul lato della strada sono spesso utilizzati per attaccare le forze afgane e straniere.

Il ministero della difesa di Kabul ha confermato anche il bilancio di ventuno vittime. Il capo della polizia provinciale, Assadullah Sherzad, ha fatto sapere che tra le vittime ci sono donne e bambini. Cinque persone, ha aggiunto, sono rimaste ferite.

Migliaia di marine statunitensi e soldati britannici stanno portando avanti offensive nell'Helmand, uno dei centri della guerriglia talebana.

(6 agosto 2009)


Inguscezia, esplosione al mercato
un morto e almeno 20 feriti


Un'esplosione, seguita da un violento incendio, ha devastato uno dei padiglioni del mercato centrale di Nazran in Inguscezia, repubblica caucasica della Federazione russa. Il bilancio è di un morto e di venti feriti, tra cui uno gravissimo.

Secondo una prima ricostruzione l'incendio sarebbe stato causato dalla caduta di un trasformatore elettrico su un pullmino parcheggiato presso il mercato. Le fiamme, subito divampate, hanno investito la folla.

"L'incendio non è stato il risultato di un atto terroristico", ha detto il segretario del consiglio di sicurezza dell'Inguscezia, Aleksiei Vorobiov.
"Alle 19.52 locali (17.52 italiane) - ha detto Vorobiov - al mercato, per la mancata osservanza delle misure di sicurezza, è esplosa una bombola di gas, che ha provocato l'incendio".

(5 agosto 2009)


La polemica
Pacco dono
per Mediaset



Stupito, irritato, amareggiato. Il Capo dello Stato ha tutto il diritto di esprimere la propria delusione sulla "rottura annunciata" fra la Rai e Sky che priverà l'azienda pubblica di un ricavo di oltre cinquanta milioni di euro all'anno, in seguito al trasferimento dei canali Raisat su una nuova piattaforma satellitare. E in particolare, ha ragione Giorgio Napolitano a lamentarsi delle modalità con cui è maturato il fallimento della trattativa: una decisione per così dire unilaterale che la direzione generale ha praticamente imposto - come un diktat - a tutto il Consiglio di amministrazione.

In quanto custode e garante della Costituzione, il presidente della Repubblica non può evidentemente disinteressarsi di quel servizio pubblico su cui s'imperniano nel nostro Paese principi fondamentali come il pluralismo e la libertà d'informazione, sanciti solennemente dall'articolo 21. Anzi, con tutto il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua persona, è lecito pensare che un intervento più tempestivo sarebbe valso forse a impedire o magari a prevenire un tale esito.

Danno emergente e lucro cessante, avevamo avvertito su questo giornale nelle settimane scorse, mentre già si preparava la rottura. Danno emergente: perché il prossimo bilancio della Rai s'impoverirà di questa cospicua entrata finanziaria e staremo a vedere che cosa avrà da eccepire in proposito la Corte dei Conti. Lucro cessante: perché, oltre a perdere l'audience e quindi la pubblicità raccolta attraverso la pay-tv, ora l'azienda di viale Mazzini dovrà sostenere "pro quota" l'onere della nuova piattaforma di Tivùsat. E tutto ciò, in buona sostanza, per fare un favore o un regalo a Mediaset nella sfida della concorrenza con Sky, come ha riconosciuto - tardivamente - perfino il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Sergio Zavoli.

Si dà il caso, così, che l'ex segretario generale della presidenza del Consiglio, appena trasferito alla direzione della televisione pubblica, non trovi di meglio che confezionare subito un pacco-dono per l'azienda televisiva privata che fa capo allo stesso presidente del Consiglio. Un voto di scambio o una partita di giro, si potrebbe anche dire. Naturalmente, a spese del cittadino contribuente, telespettatore e abbonato alla Rai. Come già a suo carico era stata la multa di oltre 14 milioni di euro inflitta dall'Autorità sulle comunicazioni a viale Mazzini per la nomina dell'ex direttore generale, Alfredo Meocci, insediato alla guida dell'azienda dal centrodestra nonostante la palese incompatibilità con il precedente mandato di commissario nella medesima Authority.

Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset. Un'azienda di Stato, la più grande azienda culturale del Paese, che via via si trasforma in una filiale, una succursale, una dépendance del Biscione. Già omologata al ribasso sul modello della tv commerciale, quella della volgarità e della violenza, delle veline e dei reality fasulli, adesso la tv pubblica si allea e si associa con il suo principale concorrente sotto il cielo tecnologico della tv satellitare.

Sarà verosimilmente proprio di fronte a questo scempio che il centrosinistra, risvegliandosi da un lungo e ingiustificabile letargo, s'è deciso finalmente a riproporre con forza la questione irrisolta del conflitto d'interessi: prima, con una dichiarazione di guerra del segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, il quale ha annunciato bellicosamente che su questa materia (e speriamo anche su altre) il suo partito non resterà più fermo e silente; poi, addirittura, con una proposta di legge presentata da Walter Veltroni e sottoscritta da tutte le opposizioni, sostenuta dal contributo di un esperto costituzionalista come l'ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria. Meglio tardi che mai, dobbiamo ripetere. Ma che cosa avevano fatto nel frattempo Veltroni e Franceschini per risolvere l'anomalia di un presidente del Consiglio che controlla direttamente tre reti televisive private e indirettamente anche le tre reti pubbliche? E pensare che c'è ancora qualche illustre professore che esorta il Pd a emanciparsi dall'influenza di "alcuni giornali" (quanti e quali?), mentre una maggioranza di governo condiziona impunemente giornali, telegiornali e giornali radio.
Nel regno del conflitto d'interessi, la rottura fra la Rai e Sky diventa la prova regina di un'occupazione "manu militari" di tutto il sistema dell'informazione. Un attentato al pluralismo, alla libertà d'opinione. E anche questa, purtroppo, si rischia di apprezzarla solo quando la si perde.


(5 agosto 2009)
 
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96 replies since 6/8/2009, 10:36   4895 views
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