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Lucky (Due di Picche)
view post Posted on 19/9/2009, 13:18 by: Lucky (Due di Picche)




la sinistra per bene si liberi da questo abbraccio mortale»
Brunetta: «Elite irresponsabili
vogliono un vero colpo di stato»

Sono quelle «della rendita parassitaria, burocratica, finanziaria, editoriale» che pensano solo a come far cadere il governo che ha cominciato a colpirle»


CORTINA D'AMPEZZO (BELLUNO) - «Ci sono elite irresponsabili che stanno preparando un vero e proprio colpo di stato». Lo ha detto a Cortina d'Ampezzo, al convegno del Pdl veneto, il ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Il ministro ha descritto le elite come quelle «della rendita parassitaria, burocratica, finanziaria, editoriale» e ha messo in contrapposizione quelli che ha chiamato «i compagni della sinistra per bene» e quella che ha definito «la sinistra per male». E per questa ha usato la frase «vada a morire ammazzata».

CONTRO IL GOVERNO CHE LE COLPISCE - «Questa sedicente elite in questo anno di grande crisi - ha aggiunto - ha pensato solo a come far cadere un governo che guarda caso cominciava a colpire proprio le case matte della rendita». Brunetta si è quindi rivolto «alla povera sinistra che da questa finta elite si fa irretire». «Propongo - ha concluso - una lotta di liberazione per i compagni della sinistra per bene: liberatevi da questo abbraccio mortale di questa cattiva finanza, di questo cattivo sindacato, di questi cattivi gruppi editoriali».

BENE CHIESA, MA NO A IDEOLOGIA POLITICA CON LA TONACA - «Nei confronti della Chiesa stiamo dalla stessa parte»: lo ha detto oggi, a Cortina, dal ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta che ha aggiunto: «Quando la chiesa opera sul territorio e si fa carico dei fedeli spesso lo fa meglio di quanto lo faccia lo Stato. Quando però certi esponenti della Chiesa giocano al massacro, quella non la considero Chiesa ma ideologia politica con la tonaca». Brunetta ha concluso rilevando che «la Chiesa non ha mai avuto tanto dallo Stato italiano in termini di 8 per mille e questo dimostra la nostra serietà».

IL GOVERNO RISPETTERÀ I PATTI: «ORA FASE DUE»- «I patti vanno rispettati da tutti e il governo rispetterà i patti». Lo assicura il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta rispondendo a una domanda dei cronisti sui prossimi contratti del pubblico impiego.
La crisi, secondo Brunetta, ha fatto aumentare il potere d'acquisto dei dipendenti e dei pensionati.
I 32-33 milioni di italiani a reddito fisso, secondo il ministro, hanno potuto contare su aumenti salariali e pensionistici del 3-4%, a fronte di un'inflazione dell'1-2%. «Questo è il segno - ha spiegato Brunetta - che non c'è stata crisi sociale, pure in presenza di un Pil sotto di 5 punti. A soffrire, invece, sono state le imprese e i lavoratori autonomi a causa della diminuzione del calo dei consumi. Hanno resistito ma non potranno farlo ancora per molto. E perchè sono diminuiti i consumi? Per la paura». Per Brunetta il problema ora è di passare dalla «fase uno» alla fase due. «Dobbiamo dare una accelerazione tra la fine dell'anno e l'inizio del 2010 sostenendo i lavoratori autonomi che, in questi mesi, hanno sofferto ma tenuto. Rilanciare i consumi - ha rimarcato il ministro - significa dare ossigeno al lavoro autonomo e tutelare chi ha un reddito fisso». Questo dovrà essere fatto attraverso tre percorsi: le riforme (Welfare, burocrazia, federalismo, ecc...), gli investimenti e lo stimolo alla spesa.

RONCONI: «GOLPE?BRUNETTA IRRESPONSABILE E CARICATURALE» - Le reazioni alle parole di Brunetta sul colpo di Stato non si sono fatte attendere. «Che un ministro della Repubblica evochi il rischio di un colpo di Stato è un fatto gravissimo che merita una immediata risposta da parte dei Servizi e un altrettanto urgente chiarimento del ministro di fronte al Parlamento», ha detto Maurizio Ronconi, responsabile Enti Locali dell'Udc. «Se invece la dichiarazione è stata solo il "rafforzativo" di un ragionamento politico - conclude - ci troviamo di fronte a un ministro irresponsabile oltre che caricaturale».


19 settembre 2009



Le carte: Gli effetti dei cocktail di alcol e droga su cinque donne
Quella maxi-partita di cocaina
e i malori delle ragazze in Sardegna

Per gli investigatori nella villa affittata nel 2008 c’erano grosse quantità di stupefacenti


BARI — Alla fine si torna sempre a quella vacanza in Sardegna nell’estate del 2008. Si ricomincia a indagare su quella girandola di feste, incontri, nuove conoscenze che per Gianpaolo Tarantini — imprenditore pugliese all’epoca già inserito nei giri che contano — significò realizzare il sogno di una vita: diventare amico del premier Silvio Berlusconi. E si scopre che alcune circostanze raccontate sarebbero false, mentre altre sono state invece tenute nascoste. Perché nella villa presa in affitto a Porto Rotondo c’era un gran via vai di belle donne e ben cinque di loro si sarebbero sentite male dopo essere state stordite con un cocktail di alcol e droga. Ma soprattutto perché nella cassaforte dove Tarantini ha ammesso di aver custodito la cocaina ci sarebbero stati ben più dei 70 grammi di cui ha parlato. «Visto il tenore di vita della compagnia — ha sottolineato un investigatore — quel quantitativo poteva bastare appena per un giorno » .

MEZZO MILIONE - E’ costato oltre 500.000 euro il soggiorno in Costa Smeralda pagato da Tarantini e organizzato da Alessandro Mannarini, in quel periodo uno dei suoi collaboratori più fidati. I conti sono stati fatti proprio da quest’ultimo davanti ai magistrati che lo hanno interrogato qualche giorno fa. Anche lui è indagato per cessione di droga, il suo avvocato Marco Vignola esclude che stia collaborando. «Si difende — spiega — e chiarisce gli aspetti che lo riguardano, vicende che inevitabilmente coinvolgono anche Tarantini » .

LA VILLA - Circa 70.000 euro costava la villa di Capriccioli, 2.000 euro all’ora l’uso di un aereo privato per gli spostamenti dalla Puglia alla Sardegna. Furono acquistate quattro auto di grossa cilindrata, si decise di affittare gommoni e moto d’acqua. Fu comprata una cucina e gli arredi per rendere la dimora lussuosa e confortevole. Si decise di ingaggiare quattro domestici filippini. Furono bloccate per tutta l’estate stanze all’hotel Cala di Volpe e al Capriccioli per essere certi di poter offrire ospitalità agli amici. E soprattutto si convenne di avere sempre a disposizione cocaina ed ecstasy. Nel suo interrogatorio alla fine di luglio Tarantini ha negato di aver sciolto stupefacente nel bicchiere di Eva Cavalli che poi ebbe un malore. La circostanza è stata smentita anche dalla diretta interessata, ma emergerebbe dalle intercettazioni telefoniche.

CINQUE CASI DI ABUSO - In realtà sono cinque le donne che avrebbero avuto seri problemi per l’abuso di droga. E due di loro hanno presentato un esposto a Tempio Pausania. Le denunce sono state acquisite dalla procura di Bari che in questi giorni ha chiesto spiegazioni proprio a Mannarini. In una conversazione captata il 2 luglio 2008, la moglie di Massimiliano Verdoscia (ancora agli arresti domiciliari per la cessione degli stupefacenti) parla con la moglie di Tarantini. E le intima: «Devi dire a tuo marito di smetterla con quella cosa nei bicchieri... Tu lo sai che Babu (domestico alle sue dipendenze) stamattina ha fatto il commento, dice che una ragazza è svenuta nel giardino e Babu l’ha presa e ha detto: 'signora, ma che ha messo qualcosa nel bicchiere di Mannarini?'. Ti rendi conto? Devi dire a Gianpaolo che la deve finire, che quella è una storia pericolosa... » . Mannarini ha negato di essere il fornitore della droga: «Mi occupai del trasferimento dei bagagli in almeno quattro viaggi Bari-Olbia effettuati in auto, ma non fui io a preparare le valigie e non so che cosa contenessero. E’ possibile che ci fossero stupefacenti». Tarantini afferma invece che fu proprio l’amico a fare da «corriere » e poi aggiunge: «L’avevamo comprata a Bari e ce la dividemmo dopo essere arrivati». Ma — è questa l’accusa della Procura — «mente sul quantitativo e anche sui fornitori».

I TIMORI PER LA VITA - Il sospetto dei pubblici ministeri è che l’imprenditore sia riuscito a ottenere una grossa «partita» grazie a conoscenze di malavitosi baresi e dunque anche a queste sue frequentazioni si riferisse quando ha manifestato «timori per la mia vita e per la mia famiglia». Il provvedimento eseguito ieri riguarda la droga ma è possibile che già dopo l’udienza di convalida arrivino nuove contestazioni. Sibillino sul punto è apparso il procuratore Antonio Laudati: «Il fermo è stato compiuto in relazione a una prospettazione di spaccio, ma le indagini che seguiranno immediatamente dopo il fermo riguarderanno tutte le posizioni processuali di Tarantini ».

Fiorenza Sarzanini
19 settembre 2009


tragedia nello sport
Ravenna: investito da auto,
è morto il calciatore albanese Filipi

L’attaccante aveva 20 anni, l’incidente alle 23 di venerdì sera lungo la circonvallazione di Cervia


RAVENNA - È morto nella notte ra venerdì e sabato, investito da un’automobile il calciatore Brian Filipi, ventenne attaccante albanese del Ravenna, squadra che milita nel Girone B della LegaPro di prima divisione (l’ex Serie C). L’incidente è accaduto poco dopo le 23 lungo la circonvallazione di Cervia.
Filipi camminava assieme a Stefano Scappini sul ciglio della strada quando alle spalle dei due è arrivata l’automobile che ha colpito in pieno il ragazzo facendolo volare e ricadere pesantemente sull’asfalto. La macchina, che secondo alcune testimonianze viaggiava a forte velocità, è andata poi a fermarsi - si legge sempre dal sito del Ravenna - contro un paio di vetture parcheggiate. Il personale del 118 Romagna Soccorso, intervenuto con un’auto medicalizzata e due ambulanze (anche una donna di 52 anni è stata visitata al pronto soccorso) assieme a vigili del fuoco e carabinieri, ha portato il giovane calciatore in ospedale, dove è morto.

LA CARRIERA - Il giovane attaccante lo scorso anno aveva totalizzato 23 presenze con il Ravenna in Prima Divisione, realizzando cinque gol. Dopo che il Palermo non aveva sfruttato l'opzione per acquistarlo nell'ambito dell'operazione Succi, a Filipi si erano interessati Torino e Chievo, aveva riferito a luglio il ds della società romagnola Giorgio Buffone, definendo il giovane albanese «un giocatore già pronto per una squadra di livello».

PARTITA RINVIATA - Il Ravenna Calcio ha chiesto alla Lega Pro di rinviare la partita in programma domenica a Foggia. I giocatori si sono recati sabato mattina allo stadio Benelli, ma hanno annullato la rifinitura e si ritroveranno martedì per la ripresa degli allenamenti. Fino a quel giorno - si legge sul sito web della società - tecnici e calciatori non rilasceranno dichiarazioni alla stampa «nè sulla tragedia accaduta, nè su altri argomenti».


19 settembre 2009



La lente
Se Murdoch cerca l’ingegnere
Trattative per il digitale terrestre


La sfida è partita dal satellite ma potrebbe presto spostarsi sul digitale terrestre. Per rispondere a Rai, Mediaset e Telecom Italia, Rupert Murdoch starebbe preparando un colpo ad effetto. Secondo alcune voci il patron di Sky avrebbe iniziato a studiare con attenzione il dossier «Rete A», la tivù del Gruppo Espresso che possiede due mux, i preziosi multiplex digitali. Di comprarli però non se ne parla: fino al 2014 Sky non può acquistare asset televisivi. Ma può affittarli o stringere alleanze. Ed è ciò su cui sarebbero al lavoro i consulenti del tycoon australiano e quelli di Carlo De Benedetti, che attraverso Sky potrebbe trovare una degna sistemazione a «Rete A» per la quale ha affidato un mandato a Mediobanca. Ma, soprattutto, con la sponda dell’Ingegnere, Murdoch troverebbe rapidamente il modo per rendere la vita meno facile a Rai, Mediaset e Telecom Italia. Nella partita avrebbe un ruolo, sostiene qualcuno, anche Tarak Ben Ammar, consigliere storico di Murdoch, membro del board di Sky Italia e di Mediobanca. I colloqui sarebbero in corso. Sky punterebbe a prendere in affitto i mux di De Benedetti. Ma i consulenti starebbero valutando se è possibile fare anche qualcosa in più.

Federico De Rosa
19 settembre 2009


Democratici. Bersani con il 53% stacca il rivale di 14 punti nei circoli. Marino all’8%
Franceschini in svantaggio
punta tutto sulle primarie

La strategia del segretario: toni duri su rinnovamento e questione morale


ROMA — Si sapranno solo oggi i primi dati ufficiali dei congressi che i circoli del Pd stanno tenendo in tutta Italia in vista delle assise nazionali dell’11 ottobre a Roma. Ma a largo del Nazareno, dove continuano ad affluire i risultati, si è già fatta una stima orientativa. Ieri mattina le percentuali erano queste: Pierluigi Bersani sfiorava il 53 per cento, Dario Franceschini si attestava al 39, mentre Ignazio Marino era di poco sopra all’ 8. In termini assoluti l’ex ministro del governo Prodi otteneva 7.202 voti, il segretario 5.341 e il senatore-chirurgo 1.111. Come da copione, insomma.

SCARTO IN AUMENTO - È probabile che Bersani, nei congressi che si sono svolti ieri sera, vedrà aumentare lo scarto sul segretario, ma si tratta di cifre che comunque dimostrano come non ci sia un vincitore a stragrande maggioranza. Secondo le stime che vengono fatte al Nazareno alla fine parteciperanno a queste votazioni 500mila degli 800mila iscritti al partito e le percentuali definitive, quelle con cui i contendenti arriveranno al congresso nazionale, sono già state grosso modo calcolate. La mozione Bersani si aggirerà intorno al 55 per cento, quella Franceschini fra il 38 e il 40. Peraltro in questa fase è forte il peso degli apparati, come dimostrano certe percentuali bulgare per l’uno o l’altro dei contendenti nelle roccaforti dei diversi «ras» locali. Due esempi indicativi nel viterbese. A Vetralla dove Beppe Fioroni, che appoggia il segretario, è fortissimo, Franceschini ha battuto Bersani 50 a 2. A Canepina, invece, che è una zona d’influenza dell’ex segretario amministrativo del Pds Ugo Sposetti, Bersani ottiene 212 voti contro i tre di Franceschini.

IL PESO DEGLI APPARATI - Dunque, nulla di nuovo sotto questo punto di vista: il peso degli apparati in questa fase era dato per scontato. Quel che sembra stupire, invece, è l’affluenza in alcune zone tipicamente rosse come l’Emilia Romagna. Lì, finora, ha votato solo il 30 per cento degli iscritti. Quella zona, comunque, fatta eccezione per Ferrara, è quasi del tutto appaltata a Bersani, che è sponsorizzato dal presidente della giunta Vasco Errani. Ci sono state anche delle recenti polemiche sulle modalità di voto nella più grande delle regioni rosse: a Imola, soprannominata la Stalingrado bersaniana, alcuni militanti del Pd sono andati a votare muniti addirittura di facsimile della scheda. La cosa, com’era ovvio, non è passata inosservata ed è stata denunciata pubblicamente dallo stesso Franceschini. E a proposito del segretario, il leader del Pd si sta già preparando alla fase due del confronto, quella delle primarie. Franceschini dà quasi per scontato che al congresso, dove più forte è il peso degli apparati del partito, Bersani prenderà più voti. Il leader, perciò, punta già tutte le carte sull’appuntamento del 25 ottobre. Finora il suo avversario ha fatto una campagna elettorale alla grande, tappezzando tutta Italia di manifesti. Tant’è vero che ci sono state diverse polemiche sulle spese sostenute dall’ex ministro del governo Prodi, spese che, secondo lo statuto del Pd, sono limitate da un tetto oltre il quale non si può andare. Il segretario non è ancora passato al contrattacco su questo fronte. Finora ha voluto evitare di mettere i manifesti con il suo volto, ma lo farà per le primarie. «Sarà quello del 25 ottobre il voto significativo», continua a ripetere ai suoi Franceschini, che non sembra dare troppa importanza ai risultati che emergono dai congressi dei circoli del Pd. «L’obiettivo— ripete quasi ossessivamente il segretario — è quello di ottenere una grande mobilitazione per le primarie: un milione e mezzo, due milioni di persone, questo è il traguardo » .

CAMBIO DI STILE - Un traguardo che evidentemente il leader del Pd ritiene di poter raggiungere. Proprio per questo, terminati i congressi locali, Franceschini cambierà anche lo stile della sua campagna elettorale. Dopo la pausa estiva, infatti, il segretario aveva usato un tono molto soft nei confronti degli avversari interni: la platea dei votanti non è quella adatta ad apprezzare la divisione e lo scontro, visto che gli iscritti, in ogni occasione, continuano a invocare «unità, unità». Ma il popolo delle primarie è diverso: perciò per quella campagna elettorale il segretario riprenderà alcuni temi a lui cari. Tornerà a insistere sul concetto di «vecchio » e «nuovo» e non lascerà ai margini del confronto il tema della questione morale.

Maria Teresa Meli
19 settembre 2009


nella regione della Ruda Slaska-Kochlowice
Nel 2006 un'altra grave sciagura, con 23 vittime
Polonia, esplosione di metano
morti 12 minatori e 15 feriti




VARSAVIA - Tragedia in una miniera del sud della Polonia. Almeno 12 minatori sono morti e altri 15 sono rimasti gravemente ustionati per un'esplosione di gas metano a Wujek-Slask, nella regione della Ruda Slaska-Kochlowice. Al momento dell'incidente, avvenuto a una profondità di 1.050 metri, nell'impianto erano presenti 38 lavoratori.

In tutto i minatori ricoverati in ospedale, compresi i 15 in condizioni molto gravi, sono 30, ha detto Edyta Tomaszewska, la portavoce dell'Ufficio nazionale delle miniere. Dopo l'incidente la miniera è stata sgomberata, e le fiamme, che erano divampate dopo l'esplosione, sono state domate.

L'ultimo grave incidente avvenuto nelle miniere polacche è quello di Ruda Slaska, sempre nella regione meridionale: nel novembre del 2006 a causa di un'esplosione di grisù morirono 23 minatori. Successivamente finirono alla sbarra molti dei responsabili dell'impianto, accusati di negligenza.

(18 settembre 2009)


Lo scrittore afgano-americano: "Grazie per il vostro sacrificio"
"È un Paese di importanza vitale: un Afghanistan instabile è un rischio per l'intero Occidente"
Khaled Hosseini: "Non lasciateci soli"
l'appello agli italiani del cacciatore di aquiloni



KHALED Hosseini ha ancora negli occhi le immagini degli aquiloni che ha fatto volare sul cielo di Kabul insieme a centinaia di bambini qualche giorno fa. Ma da qualche ora nella mente dello scrittore diventato famoso con il "Cacciatore di aquiloni", ad esse si affiancano quelle della strage dei paracadutisti italiani. E da Washington, dove ha appena riferito al Senato sul viaggio in Afghanistan come ambasciatore dell'Unhcr (l'agenzia Onu per i rifugiati) inizia l'intervista con una richiesta: "Vorrei prima di tutto dire una cosa. Qualcuno dice che gli afgani non hanno gratitudine: mi permetta di dire a nome della maggior parte del mio popolo che siamo grati per i sacrifici che tanti paesi stanno facendo. E siamo addolorati per le famiglie di chi ha perso la vita cercando di fare dell'Afghanistan un paese pacifico. Dico questo oggi pensando all'Italia".

Signor Hosseini, che Afghanistan è quello che ha lasciato qualche giorno fa?
"Un paese diverso da quello che avevo visto nel 2003 e nel 2007. E da quello che avevo abbandonato da bambino. Kabul nel 2003 era una città piena di rovine e distruzione: ora ci sono infrastrutture, negozi e traffico. Ma la sicurezza è molto peggiorata. La gente è preoccupata, ma spera ancora in un paese stabile. Certo non succederà presto: servirà tempo e impegno da parte della comunità internazionale".

Lei cita la speranza, ma l'Afghanistan è sempre più violento: e poi ci sono la corruzione e le tensioni politiche seguite alle elezioni. Dove sono gli elementi di speranza?
"Gli afgani non sono ingenui e non lo sono neanche io. Sappiamo bene che le sfide sono enormi. Ma quello che la gente chiede non è impossibile: vogliono solo i mezzi per far ripartire le loro vite. Questo è un paese che esce da 30 anni di conflitti: ne sono passati solo otto dall'arrivo degli stranieri. Quale nazione nella storia moderna è passata da anarchia, guerra civile ed estremismo a una società stabile, un'economia forte e un governo funzionante in otto anni? Al Comitato per gli Affari esteri del Senato ho detto proprio questo: dobbiamo essere pazienti. E darci obiettivi realistici".

Quali?
"Fino a poco tempo fa l'intervento in Afghanistan è stato principalmente militare. Ma puntare su buon governo e sviluppo è cruciale. Cose come la riforma della giustizia, la formazione della polizia e dell'esercito, l'educazione non sono difficili da realizzare ma hanno un impatto enorme".

Lei chiede pazienza, ma larga parte dell'opinione pubblica occidentale vuole il ritiro delle truppe...
"Io credo che l'Afghanistan sia un paese di importanza vitale per la comunità internazionale. Non viviamo in un mondo isolato: quello che succede lì non rimane dentro ai confini. Un Afghanistan instabile non è negativo solo per il mio popolo ma anche per la regione e per l'Occidente tutto. Ne abbiamo avuto prova l'11 settembre 2001. Ma anche quando gli Stati Uniti hanno spostato truppe e soldi in Iraq: e le proporzioni del conflitto afgano sono completamente cambiate. Non sono insensibile al fatto che questa è una guerra molto costosa, in termini di finanze e di sacrifici umani. E che ci sono giovani uomini e giovani donne che stanno morendo, compresi italiani. Ma le conseguenze di un ritiro sarebbero disastrose. Non è una guerra che nessuno di noi sceglierebbe di combattere: ma è la realtà che abbiamo davanti".

Cosa pensano gli afgani dei soldati stranieri? Vogliono che vadano via?
"C'è una certa delusione verso la comunità internazionale: sono state fatte molte promesse dopo l'11 settembre e poche sono state mantenute. Per quanto riguarda i soldati, non possiamo sottovalutare l'impatto delle morti di civili afgani nelle operazioni militari: è incoraggiante che gli attuali comandi Nato stiano facendo di tutto per diminuirle. Qualche anno fa il supporto alle truppe straniere era enorme, ora molti iniziano a vederle come forze di occupazione. Ma la maggior parte degli afgani sanno che se partissero, il governo, la polizia e l'esercito non sarebbero in grado di controllare il disastro che ne seguirebbe. Gli afgani sono orgogliosi e indipendenti: però se oggi chiederete loro se le truppe internazionali sono necessarie, la maggior parte vi dirà sì".

(19 settembre 2009)


L'ANALISI
L'elefante
e le formiche



NON BASTA guardare a quel che accade in Afghanistan per afferrare tutti i risvolti del conflitto. Quest'ultimo deve essere osservato da almeno due punti di vista. Si deve ovviamente studiare, anzitutto, la situazione sul terreno, entro i confini del Paese.

Un paese indomito, o incontrollabile, nel senso che tante potenze straniere vi hanno lasciato le penne, negli ultimi secoli, nel vano tentativo di sottometterlo, o di imporvi, come adesso, le regole di un ordine internazionale. Al tempo stesso va tenuta d'occhio la simultanea, ampia azione politico-diplomatica destinata a rendere possibile quel che sul solo piano militare è di difficile soluzione. I due punti di osservazione finiscono col sovrapporsi; e comunque, nell'attesa di esiti non ancora immaginabili, già da adesso non possono essere disgiunti. È significativo l'atteggiamento di Barak Obama per capire i dubbi, le perplessità della superpotenza che guida il conflitto.

Il presidente non è venuto meno al principio di una "war of necessity", ossia di una guerra irrinunciabile per gli interessi americani, e occidentali in generale, tenuto conto della indispensabile stabilità della regione, infestata di terroristi e jihadisti, tra i quali i responsabili dell'11 settembre. Una regione in cui vi sono due grandi Paesi, in permanente tensione e dotati di armi atomiche, quali sono l'Unione Indiana e il Pakistan. Quest'ultimo contagiato dai taliban e ospitante i residui di Al Qaeda. Si dirà che allargando, con le speculazioni, un'area di crisi si sconfina spesso nella fantapolitica. È vero, ma la storia dell'Asia centrale non è un'opinione.

Senza venir meno al principio della "war of necessity", Barak Obama esita adesso a soddisfare le esigenze dei militari, espresse dall'ammiraglio Mike Mullen, capo di stato maggiore generale delle forze armate americane. Mullen ha fatto capire con chiarezza che il generale Stanley A. McChrystal, comandante delle truppe Nato in Afghanistan, non sarà nelle condizioni di promuovere una efficace azione contro i taliban, sempre più aggressivi, se non sarà confortato da un cospicuo rinforzo di uomini e di mezzi, prima o al più tardi entro l'inverno. Obama ha preso tempo. Ha detto di non voler affrettare la decisione. Vuol conoscere prima la nuova strategia che i responsabili militari e civili vogliono applicare. Nessun precipitoso invio di altre truppe.

A frenarlo, prima di ampliare il coinvolgimento americano, contribuiscono le perplessità sempre più evidenti tra gli stessi democratici, e quelle altrettanto evidenti nell'opinione pubblica, sempre meno favorevole a un conflitto che si dilunga troppo, e che ha perduto di vista l'obiettivo originale. Nel 2001 gli americani sbarcarono in Afghanistan all'inseguimento di Al Qaeda, alla caccia dei mandanti, dei complici dell'11 settembre. Ma adesso Al Qaeda, secondo gli uomini dell'intelligence disposti a parlare, non sarebbe più in Afghanistan. Quel che resta dell'organizzazione di Bin Laden si troverebbe in Pakistan. Il crampo di Obama è di tipo vietnamita.

Senza stabilire un nesso tra i due conflitti egli ha nella memoria la drammatica scalata dei suoi predecessori, in particolare di Lyndon Johnson, che negli anni Sessanta riversarono via via mezzo milione di uomini nella penisola del Sud Est asiatico (dove all'inizio c'erano soltanto esperti e consiglieri), cadendo nella trappola delle guerre asimmetriche. Guerre in cui gli insorti mal armati ma con radici nella popolazione possono tenere in scacco eserciti stranieri, dotati di mezzi sofisticati.

Non li sconfiggono militarmente ma li riducono al ruolo di elefanti che non riescono a schiacciare le formiche annidate nelle pieghe del terreno, vale a dire, appunto, della popolazione. Un'intelligence capace di spiare guerriglieri e terroristi, ma anche di studiare la società, in tutti i suoi risvolti, piscologici, religiosi, economici, conta più degli squadroni corazzati. O dei reparti che vivono come nel "deserto dei tartari".

Siamo comunque ben lontani dal numero di GI che componevano l'armata americana, ritiratasi dal Vietnam nei primi giorni del '73, lasciandosi alle spalle esperti poi evacuati, nell'aprile del '75, da Saigon, con drammatici voli di elicotteri. Su uno degli ultimi decollati dal tetto dell'ambasciata c'era il capo missione Graham, con la bandiera a stelle e a striscie sotto il braccio.

Entro la fine di questo mese ci saranno in Afghanistan circa 68 mila americani e 39 mila altri soldati della Nato (tra i quali gli italiani). Appena entrato alla Casa Bianca, dopo avere deplorato l'iniziativa di Bush jr che aveva dirottato in Iraq non pochi reparti operanti in Afghanistan, Obama ha deciso un'operazione in senso inverso, mandando 17 mila 500 uomini da Baghdad a Kabul. E con loro quattromila militari incaricati di addestrare esercito e polizia afgani. Un rinforzo che non ha dato, per ora, gli effetti sperati. Da qui la cautela del presidente.

E adesso un'occhiata all'avvenimento politico - diplomatico in programma il 1° ottobre, lontano dall'Afghanistan, ma con possibili conseguenze dirette su quel conflitto. Tra neppure un paio di settimane cominciano i colloqui tra l'Iran e il P5 + 1, vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e in più la Germania. Di fatto, senza tenere conto dell'opposizione dei neo-conservatori di Washington e del governo di Gerusalemme, ostili al dialogo e favorevoli alle sanzioni contro Teheran, gli americani si siedono allo stesso tavolo degli iraniani.

Quest'ultimi hanno posto come condizione che la questione nucleare non debba essere trattata. Ma lo sarà. È inevitabile. Mohammed El Baradei, responsabile dell'Agenzia atomica (IAEA) di Vienna, e veterano della vicenda, lo sa benissimo. Per questo ha accolto con entusiasmo la decisione americana di avviare un dialogo "senza precondizioni e sulla base del reciproco rispetto".

L'offensiva diplomatica di Obama verso il mondo musulmano passa obbligatoriamente per l'Iran. La rielezione contestata, forzata di Ahmedinejad è stato un contrattempo. È stata giustamente condannata, e resta come una macchia, una delle tante sul regime teocratico, ma Teheran è un interlocutore indispensabile per disinnescare la situazione mediorientale. Ed anche per l'Asia centrale. In Afghanistan l'Iran esercita un'influenza crescente, sul piano militare, economico, politico e religioso.

Pur avendo costanti, intensi rapporti con il presidente Karzai (che è stato in visita ufficiale a Teheran) gli iraniani forniscono armi agli insorti: armi leggere, mine, esplosivi vari, lancia granate ed anche missili SA-14, capaci di colpire gli elicotteri. E si prodigano presso gli afgani nel condannare la presenza straniera nel loro paese, in particolare quella americana. L'influenza iraniana è visibile soprattutto nella provincia occidentale di Herat, dove imprenditori di Teheran hanno contribuito alla creazione dei servizi pubblici e dove si propongono di costruire una fabbrica di automobili.

Lungo l'interminabile confine (600 miglia) il passaggio di uomini e droghe è intenso. L'Iran è il principale consumatore dell'oppio afgano ed è una zona di transito verso l'Asia e l'Europa. L'esercito e la polizia antinarcotici cercano di fermare quel traffico, con variabile successo e con tutte le inevitabili ambiguità che accompagnano un commercio tanto redditizio. Le autorità religiose temono gli effetti della droga nella loro società e sono severi nel proibirne la diffusione. Ma è come tentare di fermare un fiume in piena.

Nel conflitto afgano la teocrazia di Teheran ha spesso fatto un doppio gioco. Non ha amato Al Qaeda, pur avendo ospitato alcuni suoi affiliati (perché con la nazionalità saudita), né aveva una particolare simpatia per il regime dei taliban, tanto che autorizzò gli aerei americani a sorvolare il territorio iraniano nel 2001. Adesso sorride a Karzai ma arma gruppi di insorti. Se i colloqui che cominciano il 1° ottobre conducessero a un'intesa sull'Afghanistan, l'offensiva diplomatica di Obama darebbe i suoi primi importanti frutti.

(19 settembre 2009)


Amministratori di centrosinistra, esponenti nazionali, imprenditori
Gli indagati sono 32, molti dei quali accusati di associazione a delinquere
Sanità, trema il mondo politico
le inchieste di Bari al rush finale




Sandro Frisullo
BARI - Non è la scossa, ma soltanto l'inizio della scossa. L'arresto di Gianpaolo Tarantini accenna appena a quel fronte giudiziario che sta per attraversare Bari, la politica regionale - soprattutto del centrosinistra - e pezzi importanti di quella nazionale. Ad appiccarlo non è né la cocaina né le escort di Gianpaolo Tarantini ma il sistema di gestione della sanità pugliese raccontato nelle dieci inchieste parallele della procura barese delle quali ha preso il coordinamento, appena arrivato, il nuovo procuratore, Antonio Laudati. "Ci troviamo di fronte a un tipo di criminalità molto più complessa molto più organizzata - ha spiegato - Ovviamente la mafia è tutta un'altra cosa, ma il livello di pericolosità dei reati è diverso se viene commesso da un soggetto o se riguarda un sistema criminale. Questa indagine riguarda un sistema criminale".

L'indagine più importante in questo senso è quella condotta dal sostituto procuratore della Dda, Desirèe Digeronimo. Un anno e mezzo di intercettazioni telefoniche, otto mesi di microspie nelle stanze della politica pugliese a partire da quella dell'allora assessore regionale alla Sanità, Alberto Tedesco, oggi senatore del Pd. Un'inchiesta, questa, che è da considerarsi chiusa. Il pm nei giorni scorsi ha infatti tirato le somme dell'indagine insieme con i carabinieri del Nucleo investigativo: l'informativa finale è stata depositata e racconta un sistema d'affari tra appalti, nomine e finanziamenti ai partiti che vede coinvolti politici e imprenditori di caratura nazionale. Agli atti ci sono intercettazioni telefoniche incrociate tra intercettazioni telefoniche e delibere, conversazioni ambientali e architetture di società finanziarie.

Gli indagati sono 32, la maggior parte dei quali accusati di associazione a delinquere. Il presidente, Nichi Vendola, non è tra loro: ascoltato dal sostituto come persona informata sui fatti, gli è stato chiesto di spiegare il tenore di alcune intercettazioni telefoniche con il suo assessore, Alberto Tedesco. Le spiegazioni del Governatore sono state ritenute dagli inquirenti soddisfacenti.

Ma quest'inchiesta non è l'unica a essere arrivata alla svolta o a nascondere bombe a orologeria. Molto delicata è l'inchiesta dei sostituti Roberto Rossi, Renato Nitti e Lorenzo Nicastro sugli accreditamenti di alcune case di cura private: nelle carte della Finanza sono raccontate storie di pressioni per accelerare le procedure, dirigenti regionali che si trovavano nella situazione di controllore e controllato, visto che loro parenti stretti erano soci di alcune cliniche. I dieci fascicoli non sono stati riuniti, ma esiste un unico coordinamento del quale i sostituti hanno discusso in una lunga riunione di giovedì sera: Laudati ha chiesto di circoscrivere le responsabilità dei singoli trasversalmente ai fascicoli, in modo tale da avere in quadro chiaro di tutta la vicenda evitando così - come aveva denunciato l'assessore regionale alla Salute, Tommaso Fiore - che uno come Gianpaolo Tarantini potesse essere contemporaneamente indagato in un procedimento e testimone chiave nell'altro. In questo senso, verrà chiarita per esempio la posizione dell'ex vice presidente regionale della giunta, il Pd Sandro Frisullo. L'uomo è stato indicato come "amico" di Gianpaolo, così come Roberto De Santis. Nel caso di Frisullo, però, Tarantini ha ammesso di avergli pagato escort, con la speranza di ricevere favori o comunque entrature nel mondo della sanità pugliese.

(19 settembre 2009) Tutti gli articoli di politica
 
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