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Lucky (Due di Picche)
view post Posted on 5/9/2009, 13:51 by: Lucky (Due di Picche)




TREMONTI AL G20 DI LONDRA
"Mai più banche che comandano governi"
Il ministro rilancia la stretta sui bonus: «Serve a dare un messaggio più generale»


LONDRA - Il dibattito sui bonus dei banchieri «serve a dare un messaggio più generale: non è possibile che le banche comandino sui governi e sulla politica»: lo ha detto il ministro dell'Economia Giulio Tremonti al Tg1, a margine del G20 finanziario di Londra. «Non ha senso - ha insistito Tremonti - che le banche siano più grandi dei governi stessi, tanto che poi quando hanno problemi questi diventano anche problemi dei governi. Le banche devono essere al servizio della gente, non la gente al servizio delle banche».

PICCOLE E MEDIE IMPRESE - Tremonti ha inoltre affrontato i problemi del credito alle piccole e medie imprese: «Le banche hanno raccolto molti fondi pubblici, soprattutto all’estero, ma non danno sufficiente liquidità alle imprese. Hanno in mente i loro bilanci, e non il bilancio d’insieme. E’ un problema anche italiano». Il ministro ha aggiunto: «Noi abbiamo un’economia fatta di piccole e medie imprese e un eccesso di concentrazione in banche che hanno una dimensione industriale e vedono troppo poco il territorio, le famiglie, gli imprenditori e le persone. Questo è un altro punto che va risolto. Questa dimensione - ha aggiunto - non sempre si adatta alle dimensioni della nostra economia e alle piccole e medie imprese».


05 settembre 2009



Prove di ripresa
Industriali, la passione contro la crisi: «Adesso investiremo di più»
Sondaggio a sorpresa a Cernobbio: un’impresa su tre punterà sul rilancio

Con il cuore, almeno con quello, gli imprenditori sono già oltre la crisi. E’ abitudine del seminario Ambrosetti, che va in onda con regolarità svizzera ogni primo weekend di settembre a Cernobbio, organizzare un sondaggio interattivo tra i partecipanti sul principale argomento in discussione. Ieri si parlava ovviamente di uscita dall'emergenza.

Le risposte degli industriali hanno sorpreso molti, dal professor Mario Monti al presidente di Autostrade, Gian Maria Gros-Pietro («Io dei numeri della mia azienda sono certo, spero che i miei colleghi non abbiano esagerato»). La maggioranza relativa dei presenti a Villa d'Este, circa il 30%, pensa che la ripresa verrà nel secondo semestre del 2010 ma c'è un 10% che vede rosa e si è spinto a prevedere la fine del tunnel già entro il 2009. E fin qui lo scostamento tra il sentiment degli ospiti di Ambrosetti e l'opinione degli analisti è tutto sommato ridotto.

Interrogati però sulle previsioni di fatturato per il 2009 delle loro aziende, all'incirca un quarto degli imprenditori ha risposto che non ci saranno variazioni sul 2008 e addirittura un 28% ha «confessato» che la sua azienda chiuderà il bilancio con ricavi superiori a quelli fatti segnare l'anno prima. In più di qualche caso con incrementi superiori al 10%! Ma non è finita. Il questionario preparato dagli Ambrosetti boys e illustrato dalla giornalista americana Maria Bartiromo prevedeva una terza domanda, incisiva e rivelatrice. Rispetto a tre mesi fa avete deciso di incrementare il piano di investimenti previsto dalla vostra azienda o avete frenato? Circa il 33% degli interpellati ha risposto sì: altro che freno, abbiamo scelto di accelerare le spese per investimento. Un altro terzo ha comunque confermato i piani che aveva adottato e solo il restante 33% ha invece tarato al ribasso quanto stabilito un trimestre fa. Gli economisti di mezzo mondo prevedono una jobless recovery, una ripresa senza aumento di posti di lavoro? Beh, gli imprenditori di Cernobbio non la pensano così e stanno parlando delle proprie aziende. Il 40% dichiara che non ci saranno novità negative e l'occupazione resterà stabile ma un manipolo di coraggiosi, il 15% di chi ha risposto al quesito, ha detto che prevede di incrementare i posti di lavoro.

Prima di rispondere alle domande della Bartiromo gli industriali avevano ascoltato alcuni tra i più gettonati esponenti del circo bianco della crisi: l'americano Nouriel Roubini, il francese Jean Paul Fitoussi e l'inglese Martin Wolf. E i tre avevano riversato sulla platea secchiate di (sano) pessimismo. Tutto si può dire tranne che i nostri intrepidi imprenditori fossero plagiati. Anzi. Era stato spiegato loro che «la ripresa sarà a U, debole e lenta », che «il mondo ha palesato un'enorme capacità produttiva in eccesso», che «non si trova chi possa sostituire il consumatore americano come motore della ripresa» e Fitoussi aveva ridimensionato gli entusiasmi per il Pil dei cugini francesi tornato a salire («ha un piccolo significato »). Il solo Gary Becker, premio Nobel itinerante, li aveva tirati su inneggiando agli incrementi di produttività realizzati dentro e nonostante la crisi.

Come si spiega, dunque, l'ottimismo degli industriali italiani? «Vuol dire che hanno completato la ristrutturazione e pensano al futuro» azzarda Chicco Testa. Ma il vice-presidente della Confindustria, Alberto Bombassei, scuote la testa e ammette di «esser rimasto stupito dai risultati del sondaggio». Un caveat da tenere a mente riguarda il campione di Cernobbio: non rappresenta tutte le imprese italiane, qui vengono le grandi e le medie. Non certo le piccole e piccolissime. Poi come suggerisce il capo di Ibm Italia, Nicola Ciniero, «c'è la voglia di guardare al bicchiere mezzo pieno, il voto forse non è l'esatta fotografia della realtà ma esprime la voglia di reagire». E questa se vogliamo è la notizia. Testimonia Maria Paola Merloni: «Personalmente non sono sorpresa più di tanto. Diciamo che oggi a Cernobbio si è palesato lo spirito migliore della nostra industria. Il segnale è che non si va avanti solo con i tagli, si deve e si vuole tornare a investire ». Sintetizza per tutti Luigi Abete: «Gli industriali hanno capito che dopo la crisi non c'è l'Apocalisse, guardano al medio termine e con il cuore hanno già superato l'ostacolo».

Dario Di Vico
05 settembre 2009


IL direttore ad interim di Avvenire, Marco Tarquinio
Il sostituto di Boffo all'attacco:
«Cattiva stampa e video-indecenze»

Nel primo editoriale mette sotto accusa le tv. «Adesso giudichino i cattolici»


«Avvenire» non ci sta, e in un editoriale firmato oggi da Marco Tarquinio, che come direttore ad interim ha la responsabilità del quotidiano cattolico dopo le dimissioni del direttore Dino Boffo, rivendica i meriti del giornale premiato dai lettori («sono loro che giudicano della nostra pulizia e coerenza»), risponde alla «campagna diffamatoria» messa in atto dal Giornale di Feltri, si interroga «sulla sorte della libera stampa in Italia» e soprattutto mette pesantemente sotto accusa il ruolo delle televisioni nella vicenda che ha portato alla rinuncia di Boffo.

«C'è più di un problema nel mondo dell'informazione italiana», esordisce in prima pagina Tarquinio, che prosegue più avanti: «La libertà senza responsabilità non ha senso, e l'esercizio irresponsabile della libertà diventa inesorabilmente una maledizione per ogni comunità civile», per poi passare a stigmatizzare la «inconsistenza di quella maligna campagna diffamatoria costruita - nei titoli e negli articoli del Giornale diretto da Vittorio Feltri - su una lettera anonima travestita da documento del casellario giudiziario». Arrivando a parlare delle televisioni, Tarquinio scrive: «La magna pars dell'informazione televisiva pubblica e privata ha finito per amplificare le loro cannonate in faccia alla verità. Le falsità e le deformazioni sulla persona di Dino Boffo hanno avuto - per giorni - uno spazio tv irrimediabilmente insultante. Di Avvenire e della sua linea politica è stata fatta anche in tv una interessata caricatura. E questo perché Feltri & Co. sono stati fatti dilagare sul piccolo schermo con le loro tesi e (man mano che la verità veniva a galla) i loro aggiustamenti di tesi. E quando non sono stati loro - gli sbandieratori di una ignobile lettera anonima - a occupare lo schermo, le notizie di chiarimento venute dalla magistratura di Terni sono state ignorate o sminuzzate. Confuse - prosegue Tarquinio - in un polverone di chiacchiere in politichese. Tutt'al più di querimonie su una privacy violata, quando c'era una verità di vita fatta a pezzi. Un'autentica videoindecenza» .

L’editoriale si conclude con un invito a giudicare lanciato ai cattolici italiani. «Che giudichino loro in edicola e col telecomando questa libertà irresponsabile che, ancora una volta, nessun altro, neppure l'Ordine dei giornalisti, appare in grado di giudicare. Giudichino loro - finisce Tarquinio - la stampa della falsità e della cattiveria. Giudichino le videoindecenze».


05 settembre 2009



C'era anche il segretario generale della Cei al convegno dell'associazione
Azione cattolica: «Caso Boffo: attacco e intimidazione». Mons. Crociata applaude
Il prelato: «I cattolici non si facciano prendere dalla "sindrome dell'assedio"»


CITTÀ DEL VATICANO - Non ha voluto commentare il caso Boffo, ma il segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), mons. Mariano Crociata, ha partecipato all'applauso con cui la platea dell'Azione cattolica ha accolto le parole di solidarietà all'ex direttore dell'Avvenire, espresse dal presidente dell'associazione, Franco Miano. Miano ha espresso sconcerto e condannato «con forza l'intimidazione che l'attacco del Giornale ha comportato contro una persona e contro, più in generale, la libertà di espressione».

ASSEDIO - I cattolici italiani devono evitare da una parte la «sindrome da assedio, di chi vede attorno a sé nemici e minacce alla fede e alla Chiesa», ma anche di «lasciarsi dettare il criterio di giudizio dalle mode del momento, anche sul piano dottrinale e morale», ha raccomandato mons. Crociata, intervenuto al convegno di presidenti e assistenti diocesani dall'Azione cattolica.

CARATTERE POPOLARE - «Il processo in atto», ha rilevato mons. Crociata, «ci fa assistere al lento declino dell'appartenenza religiosa forte alla Chiesa nel sentire di fondo della società italiana. Occorre trovare un equilibrio tra conservazione e adattamento». In segretario della Cei ha ricordato «il carattere popolare» della Chiesa italiana, contraddistinto «dalla non separatezza della condizione di vita dei credenti dal resto della società. Bisogna vigilare sulla tentazione di ridurre la fede alla dimensione privata, ma anche su quella opposta di adagiarsi sul mantenimento di un ambiente socio-culturale con tratti religiosi e più o meno vagamente cristiani, secondo una prospettiva da religione civile».


05 settembre 2009




IN AFGHANISTAN
Il marine morente: la foto
che ha fatto indignare il Pentagono

L'Ap mostra gli ultimi atti di vita di un soldato sul campo di battaglia. Proteste. «Non c'è compassione»


La fotografia di un giovane marine dilaniato e morente sul campo di battaglia in Afghanistan ha provocato le proteste del Pentagono. La decisione dell'agenzia Ap di mandare in circuito gli ultimi attimi di vita del caporale Joshua Bernard è stata una «raccapricciante violazione del buon senso e del rispetto delle persone», ha scritto il ministro della difesa Robert Gates alla maggiore agenzia di informazione americana. Gates ha scritto al presidente dell'Ap Thomas Curley dopo aver raccolto la protesta del padre del ragazzo, morto per le ferite riportate il 15 agosto nella provincia di Helmand. «Non sono nemico dei media, ma la vostra mancanza di compassione e di senso comune nel mettere la foto di questo giovane smembrato e mortalmente ferito sulle prime pagine di numerosi giornali è raccapricciante. Non c'è legge o diritto costituzionale che tenga. Qui è in gioco il buon senso e il rispetto delle persone».


La foto del marine morente
Nell'immagine della fotografa Ap Julie Jacobson, il soldato, sanguinante e morente, è assistito da due commilitoni dopo esser stato colpito da una granata in un boschetto di melograni nei pressi del villaggio di Dahaneh. Julie aveva scattato da lontano, con il teleobbiettivo, sotto il fuoco dei talebani, senza rendersi conto quel che riprendeva. «Poi l'ho visto, a dieci metri da me. Una gamba strappata dall'esplosione, l'altra appesa a un brandello di pelle. Aveva perso conoscenza». Per l'Ap la decisione di mettere l'immagine in circuito è stata difficile: «I nostri giornalisti documentano avvenimenti mondiali ogni giorno e l'Afghanistan non fa eccezione: è nostro dovere mostrare la realtà della guerra per spiacevole e brutale che sia», ha detto Santiago Lyon, il capo del servizio fotografico. L'agenzia ha aspettato che i funerali del giovane marine, 21 anni di New Portland in Maine, fossero stati celebrati il 24 agosto prima di distribuire l'immagine con l'embargo a oggi: l'idea era di dare ai quotidiani abbonati il tempo di riflettere sull'opportunità o meno di pubblicarla. Alcune testate si sono rifiutate di farlo. Immagini di soldati americani morti o mortalmente feriti in combattimento sono rare in parte perché è difficile per un giornalista avere accesso alla linea del fronte, in parte perchè le regole del Pentagono impediscono di mostrare le immagini fintanto che le famiglie non sono state avvertite. Dopo aver imposto per anni il bando, l'amministrazione Obama in aprile ha dato luce verde alla distribuzione di foto delle bare che rientrano in patria dall'Iraq e l'Afghanistan a patto che le famiglie fossero d'accordo: un'inversione di rotta a 180 gradi rispetto a quanto in vigore dagli anni Novanta.


04 settembre 2009


MORTI SULLE STRADE
Pirata della strada uccide un 77 enne
Fermato autista fuggito dopo lo scontro
Ai carabinieri l'uomo ha ammesso di essere alla guida.
L'incidente è avvenuto alle 6 del mattino in via del Trullo




ROMA - Nella prima mattina di sabato, Carmelo Pillitteri medico di 77 anni, è stato travolto e ucciso da un'auto pirata in via del Trullo, alla periferia della capitale. I carabinieri hanno ritrovato la macchina, una Bmw, abbandonata in una strada non lontana dal luogo dell'incidente mortale. Il proprietario - un uomo di 30 anni figlio di un poliziotto della capitale - , ascoltato dagli investigatori, ha ammesso di essere alla guida al momento dell'incidente ed è in stato di fermo nella caserma dei carabinieri del Nucleo Radio Mobile di Roma. Il 30enne è risultato negativo ai test di droga ed alcool ai quali è stato sottoposto.

FERMATO IL PROPRIETARIO DELL'AUTO - I carabinieri del nucleo radio mobile, una volta arrivati sul luogo dell'incidente, avvenuto verso le sei del mattino, hanno trovato accanto al corpo dell'anziano uno specchietto retrovisore di una Bmw ed alcuni vetri in frantumi. Poco dopo in via degli Alagno è stata trovata l'auto ricercata. Dopo il fermo del proprietario dell'auto, i militari stanno adesso cercando di stabilire le cause dell'incidente e verificare se la vittima sia stata investita mentre si trovava sul ciglio della strada o in mezzo alla careggiata, dove il corpo è stato trovato. Il magistrato di turno della procura dovrà ora decidere i provvedimenti da adottare nei confronti dell'investitore.


L'incidente di Pomezia (Faraglia)
UN 17ENNE MUORE A POMEZIA - L'incidente del Trullo arriva a poche ore da un altro mortale . Un ragazzo di 17 anni di Pomezia, alle porte della capitale, ha perso la vita nel tardo pomeriggio di venerdì in un incidente stradale sulla via del Mare. A bordo di una moto Aprilia 125, il giovane viaggiava da Torvaianica a Pomezia ed è stato falciato da una Marea station wagon. A bordo dell'auto, una coppia di Pomezia che, a quanto si apprende, aveva girato per recarsi ad un supermercato tagliando la strada al motorino. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Pomezia e la polizia municipale.


05 settembre 2009



Il dramma venerdì sera a Caraglio
Cuneo: 69enne uccide la convivente
La vittima è una 58enne di origine albanese. All'origine del gesto ci sarebbero stati i continui litigi tra i due

CUNEO - Ermete Armando, 69 anni, ha ucciso la convivente, Emine Hysem, 58 anni, di origine albanese, e si è consegnato ai carabinieri. È successo venerdì sera intorno alle 21 a Caraglio, in provincia di Cuneo. Secondo le prime ricostruzioni, l'omicida (un carpentiere munito di regolare porto d'armi) avrebbe sparato alla donna con un fucile calibro 22, poi avrebbe chiamato una vicina di casa la quale ha avvertito i carabinieri. All'arrivo dei militari l'uomo non ha opposto resistenza e ha confessato di essere stato l'autore del delitto. All'origine del gesto ci sarebbero stati i continui litigi tra i due, entrambi vedovi, che convivevano da un anno e mezzo. Il movente non è ancora chiaro ma i due, che soffrivano entrambi di momenti depressivi, litigavano da tempo per banali motivi.


05 settembre 2009



IL CAMBIO AL VERTICE RESTA UN AFFARE DI FAMIGLIA
Il Gabon nella rete dei Bongo
Petrolio, auto di lusso e povertà
Ali Ben succede al padre Omar. Morti e feriti nelle proteste


Ali Ben Bongo, figlio di Omar Bongo, satrapo del Gabon per 41 anni, morto l’8 giugno, è stato eletto presidente. La dinastia è salva, l’opposizione grida ai brogli e nella capitale e a Port Gentil, seconda città del Paese, sono scoppiati tafferugli.

Dev'essere stato difficile per il vecchio dittatore El Hadji Omar Bongo Ondimba scegliere il suo successore tra una trentina di figli (ovviamente avuti da donne diverse). Ha preferito Ali Ben Bongo che qualcuno dubita addirittura sia realmente suo discendente di sangue. «L'ha adottato perché è stato concepito a 18 mesi dal matrimonio con la sua prima moglie», sussurrano i maldicenti a Libreville, la capitale gabonese, e il cinquantenne delfino ha dovuto far intervenire la madre, Josephine Kama, cantante diventata Patience Dabany, che ha confermato. Ali Ben (nato nel 1959) si chiamava Alain Bernard ed era cristiano. Essenziale nella sua vittoria elettorale l'aiuto della Francia, interessata a mantenere la continuità di un regime che ha garantito al Paese la stabilità necessaria alle compagnie francesi, americane e all'italiana Eni, di sfruttare senza problemi il petrolio.

La dinastia Bongo è riuscita, almeno per ora, a assicurarsi la successione. Già il vecchio «dinosauro» aveva pensato ad allargarsi e dopo il divorzio con Josephine aveva scelto di sposare Edith Sassu Nguesso, giovanissima figlia di Dennis Sassu Nguesso, presidente cleptocrate del Congo Brazzaville. Omar Bongo, che prima di convertirsi all'Islam nel 1973 si chiamava Albert-Bernard Bongo, nei sui 41 anni di potere assoluto ha accumulato una fortuna enorme. I gabonesi, grazie ai proventi del petrolio, potrebbero essere ricchissimi. Invece la famiglia Bongo «allargata» è l'unica a sprofondare nell'oro, mentre la popolazione (meno di un milione e mezzo di persone) vive in condizioni miserabili. La collezione di automobili di Omar Bongo, finita al figlio, è leggendaria: due Ferrari, sei Mercedes, tre Porche, una Bugatti, due Rolls-Royce e una Maybach. Nessuno sa a quanto ammontino i beni della famiglia Bongo, una delle più ricche al mondo. Negli anni '90 gli americani avevano trovato nelle banche Usa 100 milioni di dollari appartenenti al dittatore. In Francia la compagnia petrolifera Elf-Aquitaine è stata accusata di aver versato nella casse del dittatore pesanti tangenti. Oltralpe i Bongo possiedono, oltre ad alcuni conti correnti milionari, 33 proprietà, compresa una villa da 25 milioni di euro. La prima moglie di Ali Ben, Inge, è apparsa in un reality show televisivo, Really Rich Real Estate, per acquistare una dimora da 23 milioni di euro a Hollywood.

Ogni tanto il vecchio mostrava grande benevolenza e così durante un incontro con i diplomatici a Libreville aveva annunciato una donazione di alcuni milioni di dollari per opere caritatevoli. L'ambasciatore americano, colpito da tanta magnanimità, chiese: »Denaro che viene da vostri fondi personali o dalle casse dello Stato?». Il presidente sembrò confuso ma poi i due uomini si trovarono d'accordo: questa distinzione era superflua e insignificante in Gabon.

Poco il denaro impiegato per sviluppare il Paese. A fianco di oleodotti modernissimi corrono strade sterrate piene di buche. I miliardi ottenuti dai proventi del petrolio non sono stati messi a disposizione della popolazione. In vero qualcosa è stata destinata per glorificare Papa Bongo: a parte le enormi gigantografie con il suo faccione ornato di baffi piazzate per le strade e le piazze di Libreville con cui “il popolo si congratula per i 40 anni al potere”, il Paese è pieno di palazzi e strade, a lui intitolati: dal Senato Omar Bongo, al boulevard trionfale Omar Bongo, all'università, allo stadio, alle palestre, all'ospedale militare. Perfino la città natale dell'uomo amico di tutti i presidenti francesi, da De Gaulle a Chirac, ha cambiato nome: ora si chiama Bongoville. Il suo scettro è passato al figlio Ali Ben che ha già rassicurato le compagnie petrolifere: “Il Paese non cambierà”. Il che, tradotto, vuol dire: voi vi prendere il petrolio e noi continueremo ad arricchirci. Qualcuno a Libreville ha aggiunto: “E la popolazione a morire di fame”


Il quotidiano inglese dedica ampio spazio alla recente alleanza mediatica
tra i due leader: interessi comuni nel nuovo canale satellitare Nessma
Guardian: "Per la tv araba
connection Gheddafi-Berlusconi

Il Financial Times si chiede: "Chi rimpiazzerà il Sultano?"



LONDRA - Silvio Berlusconi è protagonista di un nuovo caso di conflitto d'interessi, questa volta riguardo alla Libia, dopo l'ingresso di una società libica in una compagnia di produzione cinematografica controllata dalla Fininvest che ha recentemente acquistato quote in una tivù privata a Tripoli. A rivelare la "Gheddafi-Berlusconi connection" è il quotidiano Guardian di Londra, che ritorna sulle polemiche per la recente visita in Libia del nostro presidente del Consiglio ipotizzando che dietro l'amicizia politica trai due leader ci siano anche comuni interessi d'affari.

Nel giugno scorso, scrive il corrispondente da Roma del Guardian, John Hooper, una società libica, la Lafitrade, ha acquisito un 10 per cento di azioni nella Quinta Communications, una compagnia di produzione cinematografica fondata da un uomo d'affari tunisino che vive in Francia, Tarak Ben Ammar. La Lafitrade è controllata dalla Lafico, il fondo d'investimenti della famiglia Gheddafi, precisa l'articolo. Ma una delle altre società proprietarie della Quinta Communications, con una quota del 22 per cento, è una compagnia, registrata in Lussemburgo, di proprietà della Fininvest di Berlusconi; che ha a sua volta un legame con la Libia, perché Quinta e Mediaset, l'impero televisivo del premier, possiedono un quarto per ciascuna di un nuovo canale televisivo via satellite nel Magreb, chiamato Nessma Tv, tra i cui mercati c'è appunto anche la Libia. In pratica, scrive Hooper, facendo entrare Gheddafi nella Quinta Communications, Berlusconi "ha dato al regime libico una porzione di proprietà" della nuova stazione televisiva: "Sarà interessante vedere fino a che punto i giornalisti della Nessma Tv si sentiranno liberi di criticare l'operato di Gheddafi". L'ingresso della Libia nella compagnia di produzione controllata da Berlusconi, conclude il Guardian, "sarebbe stata una notizia di prima pagina in qualsiasi paese d'Europa, ma in Italia è stato riportato brevemente solo da un paio di quotidiani nelle pagine di notiziario finanziario". E quando Berlusconi ha visitato la Libia il mese scorso, "ha visitato una stazione tv locale, chiacchierando con la sua abituale disinvoltura con i giornalisti della redazione. Quella tv era la Nessma".

Un ampio articolo su Berlusconi appare oggi anche sul Financial Times: una recensione di due libri pubblicati di recente in Italia, "Il sultanato" di Giovanni Sartori, e "Papi - uno scandalo politico", di Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio. "When in Rome, do as the Romans do", dice il proverbio inglese, quando sei a Roma, fai come i romani, e alludendo a questo motto popolare il quotidiano finanziario titola: "Quando sei a Roma, fai quello che dice Silvio Berlusconi". Il recensore, John Lloyd, membro della direzione del FT (e collaboratore di Repubblica), riassume così il senso dei due libri: "Il Sultano di Roma, al di sopra della legge, insofferente alle limitazioni, senza paura di alcuna opposizione, ha avuto una torrida primavera ed estate. Quando comincia la nuova stagione politica, vedremo quanto è stato danneggiato (da quanto è accaduto) e se sarà possibile che egli venga rimpiazzato, o dalla sinistra o più probabilmente da uno o l'altro dei suoi alleati di destra".

Sul caso Berlusconi ritorna anche il quotidiano spagnolo El Pais, pubblicando una lunga intervista al direttore di Repubblica, Ezio Mauro, nella quale Mauro afferma che il premier italiano aspira al potere assoluto e "usa il suo impero mediatico per tappare la bocca ai suoi nemici". Si tratta, osserva nell'intervista il direttore del nostro giornale, "di una battaglia per la libertà. Esiste in Italia una normale relazione tra la stampa e il potere? Si può criticare il primo ministro o no?", e aggiunge che il presidente del Consiglio sta "gravemente danneggiando l'immagine del paese". E in un altro articolo sul tema, il quotidiano spagnolo parla anche delle voci di una possibile vendita del Milan a Gheddafi, riportate anche dalla Voz de Galicia e altri giornali.

In Francia, Le Monde continua a riferire di "imbarazzo" nella Chiesa cattolica per il comportamento del primo ministro italiano, non solo riguardo alla sua vita privata ma anche sui temi dell'immigrazione; e un secondo articolo, sempre sul quotidiano francese, riferisce delle secche risposte del presidente della Commissione Europea a Berlusconi sulla Ue, dopo che il nostro premier avrebbe voluto "zittire" commissari e portavoce sui problemi dell'immigrazione. La Tribune de Geneve e l'Irish Times si occupano del documentario "Videocracy" presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, notando che il film "critica il pesante controllo di Berlusconi sui media" e il modo in cui questo influenza il paese.

E la storia del caso Feltri-Boffo arriva fino in Australia, dove il Sidney Morning Herald dedica un servizio allo "storico e potenzialmente disastroso scisma tra la Chiesa e il governo" di centro-destra italiano.

(5 settembre 2009)


L'adesione del deputato tedesco presidente del gruppo dei Socialisti e Democratici
Celebre il suo scontro a Strasburgo con Berlusconi che lo chiamò "Kapò"
Adesioni all'appello di Repubblica
Firma anche Martin Schulz




ROMA - Martin Schulz, presidente del gruppo parlamentare Socialisti e Democratici al parlamento europeo, ha aderito all'appello di Repubblica sulla libertà di stampa. Celebre il suo scontro con Silvio Berlusconi durante l'inaugurazione del semestre di presidenza italiano dell'Unione Europea nel luglio del 2003. Nella giornata di ieri nuove adesioni all'appello da parte di Nicola Piovani, Alessandro Baricco, Oliviero Toscani, Nanni Moretti e Claudio Abbado.

Lo scontro tra Schulz e Berlusconi - Era il 2 luglio del 2003. Silvio Berlusconi si insediava come presidente di turno dell'Unione Europea. Come capogruppo del Partito Socialista Europeo, nel Parlamento di Strasburgo, il tedesco Martin Schulz chiese al premier di chiarire due questioni: il conflitto d'interessi e le posizioni "xenofobe" della Lega Nord. La risposta di Berlusconi fece in poche ore il giro del mondo. "Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò". Le reazioni furono immediate ma Berlusconi non presentò mai scuse ufficiali. Alla fine di quella seduta l'allora presidente del Parlamento Europeo, Pat Cox, si disse profondamente diaspiaciuto per le offese rivolte a Schulz.

GUARDA IL VIDEO DI BERLUSCONI CONTRO SCHULZ

Nei giorni scorsi il leader politico tedesco aveva criticato le posizione del presidente del Consiglio. "Berlusconi è una persona che sempre di più diventa un pericolo per la democrazia in Europa. Mi hanno consigliato di non intervenire sulle vicende italiane ma Berlusconi esercita un influsso sbagliato in Europa e perciò noi in Europa dobbiamo opporci", aveva affermato Schulz dopo le polemiche tra il premier e la Commissione europea.

(5 settembre 2009)
 
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96 replies since 6/8/2009, 10:36   4895 views
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